Il campus di Chieti e la scintilla dell'altro Abruzzo di Roberto Napoletano - InformaCibo

Il campus di Chieti e la scintilla dell’altro Abruzzo di Roberto Napoletano

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Ultima Modifica: 04/01/2015

di Roberto Napoletano  (Memorandum  Domenicale del Sole 24 Ore – 21 dicembre 2014)

Sono arrivato a Chieti mercoledì pomeriggio perché padre Bruno Forte, molto più di un teologo e Arcivescovo di Chieti-Vasto, nostro editorialista, ci teneva tanto, è da mesi che mi chiede di venire a raccontare Viaggio in Italia, ma soprattutto vuole che veda con i miei occhi che cosa è l'università: questo campus in ordine e pieno di verde, popolato da trentamila studenti di ogni nazionalità, che esporta cervelli in mezzo mondo e si snoda in un territorio che lambisce tre regioni, attraversa “l'isola felice” della Fiat, il Ducato della Sevel nella Val di Sangro, convive appagato con il rombo della Honda di Atessa e la pasta di grano duro di Fara San Martino dei De Cecco, una delle più antiche e blasonate famiglie di pastai italiani, dei Cocco, della Delverde e di tanti altri.

Mi piace incontrare Bruno Forte, pastore di anime, a casa sua, mi piace toccare con mano quanto è forte, vero, il suo rapporto, con donne e uomini, giovani e meno giovani, di questa terra, gli sguardi e le mani di un altro pezzo di quel Sud di dentro, a volte sbrigativamente considerato minore, che ha invece saputo fare molto meglio delle nostre aree metropolitane piene di storia, disservizi e criminalità, non ha mai smarrito il valore antico della comunità, e mette insieme a modo suo saperi ed economia, testa e braccia, religione e cultura.

Mi ricordano la testimonianza di un preside di facoltà: «Con le sue Quaestiones quodlibetales, domande su ciò che piace, padre Bruno ha fatto incontrare università e città, anzi il campus e l'altro Abruzzo». Lo guardo e mi viene in mente quando, ormai quasi trent'anni fa, sentivo la voce di Pasquale Nonno, direttore del «Mattino» di Napoli, in riunione di redazione: qui ci vuole un pezzo di Bruno Forte, solo lui può aiutarci a capire e può parlare al cuore e all'anima dei lettori.
Padre Bruno, i ragazzi di Chieti, il campus, il rettore Carmine Di Ilio («Siamo la casa dell'altro Abruzzo, ma richiamiamo studenti anche da Lazio e Puglia, una parte dall'estero, una colonia da Israele») e un certo modo di fare garbato e concreto, fatto di piccoli gesti: mi era successo di provare sensazioni simili in visita al campus universitario di Salerno, pezzi del Sud di dentro che, fra mille difficoltà e qualche contraddizione, hanno saputo scegliere la strada dell'innovazione e provano ogni giorno a collegare il talento giovanile e la forza nascosta dei territori con il mondo e le durezze della sfida globale.

Parla Raoul Saggini, direttore della scuola di fisiatria dell'università di Chieti, un invito onorato del Re di Giordania per metterne su una simile in Medio Oriente, e dice qualcosa che mi colpisce: «Non crede che dovremmo ripartire dall'ossatura dello Stato e dall'etica dell'impegno? Non crede che l'imperativo sia quello di tornare ad avere uno Stato, magistratura e pubblica sicurezza, forti e dignitosi che ci facciano sentire tutti orgogliosi di essere italiani?». Rispondo di getto: giudici e forze dell'ordine sono in prima linea come non mai, il problema è la macchina dello Stato, servono cura dimagrante, digitalizzazione e uomini nuovi, ma servono soprattutto uomini capaci e motivati, anziani e giovani, la ricostruzione prima morale poi economica del Paese parte da qui.

La buona reputazione, messa a dura prova da una serie impressionante di scandali, malaffare e criminalità, e la riduzione del tasso di angheria pubblico nei confronti di imprese e cittadini, sono il capitale da ricostituire in fretta: serve molto altro per ripartire e dare speranza a chi non si arrende in mezzo alle macerie, ma questa è la scintilla necessaria perché i tanti che fanno ogni giorno il loro dovere, e molto di più, contro tutto e tutti, si ritrovino d'incanto e riprendano a far correre la fiducia in questo Paese. Si può ancora fare, bisogna uscire da populismi e semplicismi, soprattutto bisogna crederci. Ci soccorre, padre Bruno, come sempre: «Crediamo troppo poco in noi stessi e dobbiamo tutti sporcarci le mani». Si ferma un attimo, alza gli occhi al cielo, e cambia vocabolario, scandendo bene le parole: «El que ama se compromete hasta el final». La frase è dell'America Latina e si traduce così: «Chi ama s'impegna fino in fondo».
Lascio Chieti rinfrancato, la strada per ritornare a camminare nel mondo a testa alta c'è, guai a non volerla percorrere fino in fondo.

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L'Autore

Capo Redattore