“La repubblica dei cuochi” di Guia Soncini
di Informacibo
Ultima Modifica: 03/08/2016
Non a caso la Soncini sposa la massima di Paolo Poli: «Credevo che questo fosse il secolo del sesso, e invece è il secolo della cucina»
Una volta si chiamava «far da mangiare»: era un’attività a conduzione familiare. Poi si cominciò a dire «cucinare», a chiamare il cibo «food» e i cuochi «chef». E fu destrutturato, e fu impiattato, e fu una religione con rituali dai nomi strani ma familiari anche ai miscredenti: il culto è così pervasivo che gli atei sanno a memoria la liturgia dei «servito nel suo letto di». In televisione si spadella a tutte le ore, cerchiamo l’etichetta «biologico» come fosse un Graal, e se non conosci il pistacchio di Bronte non puoi avere una conversazione intellettualmente rispettabile. Come abbiamo fatto a ridurci così?
Una risposta arriva da questo divertente libro.
Inoltre la scrittrice coglie nel segna anche quando scrive sui problemi della crisi economica che coinvolge la ristorazione.
Secondo Guia Soncini non è tutto oro quel che luccica: “quasi tutti i grandi ristoranti hanno problemi economici, anche se negano: Ferran Adrià, padre spirituale del gastrofighettismo e dell’intuizione primigenia che mangiare spume invece che cose solide ci facesse sentire elegantissimi neonati, ha chiuso El Bulli ufficialmente perché preferisce fare il consulente, e certo non c’entra niente l’impossibilità di far tornare il conto di cinque persone e dodici ore per due bocconi e mezzo; Heinz Beck può esistere solo in sinergia con l’Hilton (io do lo stellato di prestigio a te, tu dai il pareggio di bilancio a me). Qualunque chef negherà sempre che la tv e tutto il resto servano, più ancora che all’ego, a ripianare i conti di un’ossessione collettiva che non si trasforma in incassi, epperò è difficile non notare che, a ristoranti pieni, i cuochi stanno in cucina”.
Guia Soncini giornalista e scrittrice, ha lavorato in televisione e in radio ed è stata collaboratrice di numerose riviste tra cui “Vanity Fair”, “Io donna”, “D di Repubblica”, “Marie Claire”.
Ha pubblicato “Elementi di capitalismo amoroso” (Rizzoli 2008) e nel 2012 l’ebook “Come salvarsi il girovita”, che ha scalato le classifiche diventando uno dei primi fenomeni del self-publishing in Italia. Per citare Tina Brown, “Mai nella storia un tale talento è stato messo al servizio di così turpi fini”.
Il suo sito è www.guiasoncini.com
Riprendiamo dal sito de La Repubblica un brano tratto da La repubblica dei cuochi (Il Mulino, 83 pagine, 8 euro) di Guia Soncini e la recensione di Stefano Bartezzaghi).
So tutto. Quanto tutti siano stati entusiasti dei suoi piatti "belli sfiziosi", mica come certi risotti che propongono di solito i provinandi; quanto il problema sia stato sul dolce, con la panna che "non montava, era troppo calda"; ma soprattutto quanto "mi scoccia quel minuto che ho sforato perché mi son messo a spiegare": lo sentirò ripetere sei volte.
I postumi da provino sono tutti uguali, da Luchino Visconti (Bellissima, 1951) a Matteo Garrone (Reality, 2012). Racconti a tutti la medesima storia con impercettibili variazioni, esagerando comprensibilmente il consenso riscontrato; reiteri quanto hai fatto colpo per convincere innanzitutto te stesso. Al terzo giro, è evidente a cosa tieni davvero.
Lui, nel giugno 2014, considerava irrilevante il "sono reperibile fino ad aprile 2015, si fan sentire loro, mi ha detto di non iniziare a settembre a tempestarli di telefonate", che sa di brutale congedo da corteggiatore indesiderato, e che il suo ego ha deciso di non tenere in considerazione: l'ha riferito solo a vongolina. Era compiaciuto di quel "dovevi vedermi lì davanti, sembravo la Clerici", certo: si era preparato lo spiritoso paragone, gli pareva così riuscito da giocarselo, oltre che con vongolina, anche con braciolina e pulcina.
Non mi fa impressione il quarantenne che, di ritorno dal provino televisivo, viene chiamato prima dalla mamma poi dal papà che poi gli passa di nuovo la mamma: è normale che dei genitori tengano ad accertarsi che il povero figlio non debba continuare tutta la vita a fare un lavoro vero.
Ancor meno mi fa impressione (semmai una qualche ammirazione per il professionismo gestionale, e per l'evidente vocazione culinaria nella scelta dei nomignoli) che il soggetto intrattenga tre relazioni, una catalogata come pesce, una come carni rosse, una come carni bianche.
A tutte e tre, molto più che bullarsi della senapata di albicocche, teneva a dire che un qualche autore o responsabile del casting o magari assistente di studio o ritoccatore di ciprie gli aveva detto "Tu proprio si vede che non hai problemi a stare in video", che è una frase che il maschio della specie umana in quest'inizio secolo accoglie con il sollievo e il compiacimento con cui una volta ascoltava eventuali lodi delle proprie performance erotiche.
Quello che davvero mi colpisce, nel tizio che prende un treno ad alta velocità in una sera d'estate dopo aver passato la giornata in uno studio televisivo, del tizio che fa un lavoro qualunque e un giorno vede una delle trasmissioni di cuochi in onda a tutte le ore e su tutti i canali e dice "Perché io no?" – e magari fino a un attimo prima era solo uno di quelli che ti sgridano se mangi surgelati e ci tengono a fare la spesa tutti i giorni, uno di quelli che comprano i capperi sotto sale da Eataly convinti che pagarli il doppio li renda più genuinamente capperosi di quelli della stessa marca acquistati all'Esselunga, uno di quelli che ti parlano del pistacchio di Bronte nei toni in cui il teppista di quand'eri sedicenne ti parlava di Kerouac – quello che mi interessa non è lui in sé.
Consideriamo il fidanzato delle carni e del mollusco come entelechia di un paese che ha fatto della cucina una neoreligione, con l'ossessività che ti aspetteresti da popoli che non si fossero sempre piccati di mangiar bene, con lo zelo dei neoconvertiti, con un approccio che se lo vedi negli americani ha un senso, ma noialtri com'è che trattiamo il gusto per il cibo come una novità, noialtri che ce ne siamo sempre bullati rispetto a turisti che abbinavano gli spaghetti alle polpette, alla marmellata, al cappuccino?
Consideriamolo, il soggetto da treno, nel momento in cui spiega, forse a braciolina ma potrei confondermi tra conversazioni simili, che il suo maialino (probabilmente scelto perché unica carne che non si chiamasse come una sua fidanzata) ha fatto colpo perché insomma, in genere 'sti concorrenti vengono e fanno delle paste, dei risotti, "che poi impiattati non sono un granché".
Quand'è che siamo diventati un popolo che dice disinvoltamente, e parlando non ad addetti ai lavori, "impiattato"? Quand'è che lo si è iniziato a usare con la disinvoltura di "attimino"? Quand'è che l'egemonia del lessico Masterchef – un programma che piacerà pure alla gente che piace, ma che è visto pur sempre da una frazione della nicchia che guarda la tv satellitare – si è diffusa approfittando d'una debolezza, d'una distrazione, della sottovalutazione del fenomeno? Quand'è che siamo stati così scemi da dire che sì, va bene, lasciamo fare, sarà pur sempre meglio "impiattare" dell'uso distorto di "piuttosto che", sono altri i pericoli, i tic, gli invasori? Com'è possibile che abbiamo continuato a temere i cosacchi, e non ci siamo accorti che alla fontana di piazza san Pietro si stavano abbeverando le ben più temibili armate dei farinetti?
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